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Il fallimento delle regolamentazioni UE: ridurre la pesca non salverà i mari – Una regola sulla quale sembrerebbe non sia possibile derogare è che il piano di ripristino di un habitat marino non può prescindere da una interruzione totale dello sfruttamento dello stesso per un periodo almeno pari al suo rinnovamento.

Gli effetti delle leggi e i dei regolamenti emanati dalla UE riguardo la riduzione dello sforzo di pesca di fatto non risolvono e allungano a tempo indefinito il sudetto periodo di ripristino. Ciò avviene perché, continuando ad esercitare l’attività della pesca, anche se si cerca di bilanciarla con misure di gestione sostenibile, non si elimina lo sfruttamento delle specie e, soprattutto, la distruzione delle biodiversità, che al contrario continua inesorabilmente.

Nello specifico, non potendo più le imprese esercitare l’attività se non attraverso l’adozione di misure stringenti, in presenza, fra l’altro, di alti costi di produzione, difficilmente potranno sostentarsi nel breve periodo, tantomeno sopravvivere in attesa del ripristino degli habitat.

Chi dice il contrario, dice il falso o forse, in malafede, attende che siano le stesse imprese a decretare la loro fine, illudendole che con siffatte regolamentazioni restrittive (riduzione di giorni lavorativi, quote, allargamento delle maglie delle reti, riduzione delle potenze motori, parchi naturali, etc etc ) possano sopravvivere in attesa di tempi migliori. Non è così!

Le soluzioni? Consentire alle aziende un’onorevole uscita di scena in quei luoghi dove l’ecosistema è totalmente compromesso (tipo gran parte del mar Mediterraneo) e regolamentare quelle aree i cui gli habitat non sono ancora compromessi, con seri piani di gestione, un numero adeguato di pescherecci e l’applicazione, sin da subito, del modello del massimo rendimento sostenibile, ossia il massimo sforzo di pesca nel lungo periodo senza intaccare la consistenza e la capacità di rigenerazione delle popolazioni delle specie bersaglio.

Per soddisfare il fabbisogno, l’inevitabile contrazione della produzione dovrà essere compensata incrementando gli allevamenti che, ironia della sorte, utilizzano ancora oggi tecniche di produzione non sostenibili e ciò non solo per i nutrienti e gli antibiotici somministrati alle specie prodotte.

In molti impianti di allevamento nelle aree del Sud-Est asiatico, per esempio, e in generale nei Paesi tropicali dove l’attività di acquacoltura è maggiormente praticata, l’ulteriore e preoccupante livello di insostenibilità di queste metodologie di produzione è dovuto principalmente al disboscamento delle barriere naturali come le mangrovie. Queste formazioni vegetali, costituite da piante legnose che si sviluppano sui litorali bassi, sono utili non solo per l’assorbimento della CO2, ma anche per fungere da barriera contro l’innalzamento delle acque, dovuto all’aumento del livello degli oceani, causato dai cambiamenti climatici.

La sistematica eradicazione delle mangrovie per fare posto agli impianti di acquacoltura è un allarme lanciato dagli ecologisti e dai biologi marini, i quali prevedono danni ingenti per quelle aree, peraltro densamente popolate, se la deforestazione dovesse continuare con l’intensità attuale.

Ovunque si guardi, i problemi sembrano davvero insormontabili.

Il fallimento delle regolamentazioni UE: ridurre la pesca non salverà i mari

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