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La crisi dei cantieri di costruzione di pescherecci in Italia e la necessità di delocalizzare – Nel nostro Paese vi è una lunga tradizione di cantieri navali adibiti alla costruzione di navi, da quelle militari, alle mercantili, al diporto, alla pesca.
Fra tutti spicca Fincantieri, azienda sotto il controllo di CDP (Cassa Depositi e Prestiti), che ne detiene circa l’80% del capitale, il resto è ad appannaggio del mercato indistinto.
Fiore all’occhiello dell’industria italiana nonostante il pauroso indebitamento, la Fincantieri grazie alle commesse militari ma anche di altra natura, probabilmente è l’unico cantiere che ancora oggi ha continuità e dove gli ordini sembrerebbero essere assicurate ancora per molti anni.
Lo stesso dicasi di cantieri da diporto, un’industria del lusso che resiste anche alle recessioni poiché chi ha i soldi non rinuncia al benessere anche in tempi di crisi.
Gli unici cantieri che sono davvero in difficolta nel nostro Paese sono quelli di costruzioni di pescherecci.
Anche qui una lunga tradizione di rinomati cantieri che hanno fatto la storia delle costruzioni di pescherecci di qualsiasi tonnellaggio.
Si parte dalla piccola pesca per finire a quella oceanica. Cantieri importanti come quelli sulla sponda adriatica, da Ancona, a Rovigo, a Civitanova marche, a Fano, ma anche nel Tirreno, Livorno, Gaeta. In Sicilia, a Palermo ma anche a Messina, Licata, Porto Empedocle, Mazara del Vallo e tanti altri.
Con la perdurante crisi della pesca molti dei cantieri hanno purtroppo dovuto chiudere i battenti ponendo fine ad una storia e soprattutto alla dispersione di maestranze formate in anni e anni di lavoro molte delle quali si sono dovute adattare a fare altro.
Quelli che resistono fanno affidamento ai soli lavori di manutenzione e quando finisce bene a qualche ammodernamento, mentre sempre più si sono convertiti (ma per quanto tempo?) a quello che l’esatto contrario della ragione per cui erano sorti, ovvero alle demolizioni.
Eh, sì proprio alle demolizioni.
La EU ha già definito da tempo la politica della pesca negli anni a venire, orientata alla riduzione dello sfruttamento per le ragioni oramai a tutti evidenti e pertanto gli unici finanziamenti che permette sono quelli legati alle dismissioni dei natanti ma che certamente da sole non garantiscono sostenibilità economica ai cantieri specializzati, a parte per l’esiguità dei pescherecci demoliti (finanziamenti irrilevanti, l’ultimo in Italia è stato di soli 75 milioni di euro per circa 2000 domande presentate, non riuscendo a soddisfare nemmeno il 10% della domanda) ma anche perché non sono attività che possono garantire continuità data l’eccezionalità della misura.
Che fare allora?
Alcuni intraprendenti imprenditori hanno pensato di delocalizzare in Paesi nei quali la pesca ha ancora un senso (Libia, Egitto, Algeria, Marocco, Eritrea, Tunisia) e soprattutto che non hanno limitazioni stringenti così come impone l’Europa, giusto o sbagliato che sia.
Con costi di mano d’opera molto più bassi e con meno limitazioni normative riescono ancora a produrre utili garantendo dei buoni prodotti.
La nuova frontiera di oggi è pertanto quella nordafricana.
Congratulazioni a chi ci ha creduto per prima e ha avuto il coraggio di investire.
La crisi dei cantieri di costruzione di pescherecci in Italia e la necessità di delocalizzare
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