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La Cina cambia e il settore ittico globale si ridefinisce – C’è un vuoto che si allarga nel cuore del più grande mercato ittico mondiale, e non è solo una questione di numeri. È un cambiamento strutturale, profondo, che tocca la pancia economica della Cina e si riflette su tutta la filiera globale del pesce. Secondo le stime della Rabobank, entro il 2030 la Cina potrebbe registrare un deficit commerciale ittico da 10 miliardi di dollari. Per un Paese che per decenni è stato tra i principali esportatori mondiali di pesce, si tratta di un’inversione di rotta che lascia il segno.
Le cause di questo squilibrio sono molteplici, ma si intrecciano principalmente con due forze epocali: la trasformazione demografica e la ridefinizione degli equilibri geopolitici. Due fenomeni apparentemente distanti che, combinati, mettono in crisi il motore produttivo di un settore chiave.
Sul fronte demografico, i numeri parlano chiaro. Negli anni ’60 ogni donna cinese metteva al mondo in media sei figli. Oggi il tasso di natalità è crollato a 1,09. Questo si traduce in un progressivo invecchiamento della popolazione: l’età media salirà da 29 anni nel 2000 a 52 anni nel 2050. E la fascia over 60 raggiungerà i 510 milioni di persone, l’equivalente dell’intera popolazione di Europa e Regno Unito.
Questa dinamica riduce drasticamente la forza lavoro disponibile, soprattutto nelle aree rurali dove storicamente si concentrano le attività di pesca e acquacoltura. L’urbanizzazione galoppante – si passerà da 550 milioni a 1,1 miliardi di abitanti nelle città entro il 2050 – aggrava la situazione, creando un vuoto operativo nelle campagne e nei distretti produttivi costieri.
Nel frattempo, però, il consumo di prodotti ittici continua a salire. La popolazione urbana ha gusti più salutisti, il pesce è sempre più richiesto. Le attuali fonti principali – pesca di cattura, allevamento di carpe e molluschi – generano ancora oltre 50 milioni di tonnellate l’anno, ma il loro potenziale si sta assottigliando. L’esaurimento delle risorse e la cronica carenza di manodopera stanno frenando la produzione.
L’allevamento di specie ittiche ad alto valore commerciale potrebbe rappresentare un’alternativa, ma anche qui emergono i limiti. L’affidamento costante a ingredienti come farina di pesce e soia per l’alimentazione degli animali pone un tetto alla crescita sostenibile del comparto.
Ecco perché la Cina si prepara ad assorbire sempre più pesce dall’estero, trasformando da produttore a importatore netto il suo ruolo storico. Questo cambiamento impone però una revisione della mappa commerciale. Dei primi dieci fornitori di prodotti ittici, solo la Russia è allineata con l’asse geopolitico cinese. Gli altri partner strategici – Stati Uniti in testa – sono oggi interlocutori complessi, se non apertamente ostili.
Per rispondere a questa vulnerabilità, Pechino sta riscrivendo i propri patti commerciali, spingendo sull’asse Sud-Sud. Aumentano le importazioni dal Sud-est asiatico, dall’Africa e dall’America Latina. Paesi come India, Vietnam, Ecuador e Indonesia sono al centro di un nuovo disegno di influenza, che unisce economia e strategia geopolitica.
Nel decennio in corso, la battaglia per il pesce sarà molto più di una questione di approvvigionamento. Sarà uno snodo cruciale per capire chi guiderà la catena del valore globale, tra chi produce, chi consuma e chi detta le regole. E con la Cina costretta a cercare fuori ciò che prima dominava in casa, per l’industria ittica mondiale si aprono nuove sfide e inedite opportunità.
La Cina cambia e il settore ittico globale si ridefinisce
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