di Angela Iantosca

Donne silenti eppure attive, partecipi, determinate e determinanti. Donne inconsapevoli del proprio ruolo, eppure assi portanti dell’economia familiare. Sono le donne della pesca di ieri e di oggi, alle prese con diritti non riconosciuti, a differenza delle colleghe dell’Unione europea che possono ammalarsi, avere una pensione e godere del diritto alla maternità. 

Per saperne di più ne abbiamo parlato con Adriana Celestini, esperta in politiche di genere per le donne nella pesca ed ex presidente di un’associazione che già nel nome tradisce la situazione: “Penelope donne nella pesca”. 

Quale è la situazione delle donne nella pesca?

“Quando noi usiamo il termine donne della pesca usiamo un termine collettivo. Sotto questa denominazione ci sono tante donne diverse tra loro per le attività: biologhe, donne delle cooperative, donne che vanno in mare e che lavorano per le barche di famiglia, donne che lavorano nelle Capitanerie e poi un numero indefinito di donne impegnate nella impresa ittica familiare. Ma queste ultime, a differenza delle altre, non hanno un riconoscimento. Soprattutto c’è una grande diversità con le donne di altri Paesi europei dove, dal 1986, hanno visto riconosciuto il loro ruolo. Le italiane che svolgono il lavoro di coadiuvanti dell’impresa ittica familiare, occupandosi di tutti i lavori a terra mentre gli uomini sono impegnati in mare, non hanno una posizione giuridica riconosciuta. Figure silenti che lavorano, ma è come se non esistessero proprio come un tempo, quando si pescava a vela, che facevano le scalanti, cioè tiravano in terra le barche e la mattina le portavano in mare, andando poi a vendere il pesce. Lavori faticosi e pericolosi, dati per scontati anche dalle stesse donne che consideravano la loro attività come un’incombenza in più nel lavoro di cura della famiglia”. 

Cosa è cambiato negli ultimi anni?

“Negli ultimi anni gli impegni e i compiti sono diventati più pesanti: le donne si occupano della commercializzazione, della trasformazione, dei rapporti con le capitanerie, con le banche e con i cantieri navali. Insomma, parliamo di responsabilità sempre più grandi. Ad Ancona, dove io vivo, le donne che fanno parte dell’impresa ittica familiare sono quelle che si svegliano in piena notte, per andare al mercato ittico che apre alle due. Sono loro le responsabili della commercializzazione e, quando vedono che la loro barca sarà tra le ultime ad essere chiamata alla vendita e che quindi, molto probabilmente, venderanno a prezzi molto più bassi perché molti commercianti sono andati via, prendono il prodotto e cercano altri mercati, per poi tornare, a sole già alto, a casa ed occuparsi dei figli. Una vita difficile e diversa da quella di tante altre professioniste. Ma la cosa più assurda è che non hanno un riconoscimento perché l’Italia non ha ottemperato alla direttiva della Comunità europea al riconoscimento di questo ruolo: mi riferisco alla 613, poi sostituita nel 2010 da un’altra direttiva. Gli unici Paesi che non l’hanno inclusa nel proprio ordinamento sono stati l’Italia, l’Olanda, la Grecia. Ora la Grecia ha risolto il problema. Noi no. La cosa ancora più assurda è che questo passaggio non sia stato fatto per le donne della pesca, ma che esiste per le donne dell’artigianato e dell’agricoltura che contribuiscono al reddito della famiglia. È una situazione di non pari opportunità. Dal 2004 porto avanti questa battaglia e per questo, forte di alcune esperienze istituzionali, ho messo in piedi l’associazione “Penelope donne nella pesca” in modo che la loro voce fosse più forte. Mi sono accorta spesso che si attirava un’attenzione folkloristica, ma in realtà stiamo parlando di donne imprenditrici che vanno rispettate per il loro lavoro. Se queste donne cadono mentre sono in attività, non hanno un riconoscimento per l’infortunio, né per la maternità, né per la malattia, né per la pensione. Mi domando il perché di questa non pari opportunità”. 

Quali tentativi ha fatto per far cambiare le cose?

“Sono arrivata alla XIII commissione del Parlamento e tutti hanno detto che era giusto arrivare ad una equiparazione, ma non ce l’abbiamo fatta. La legislatura è finita e ora si dovrebbe ricominciare tutto d’accapo. Mi dà fastidio che non ci sia la voglia da parte della politica di dare a queste forme di lavoro quello che è un riconoscimento che non è solo giuridico, ma che porterebbe le stesse donne ad un modo diverso di guardare sé stesse. Il fatto di non essere riconosciute, significa non far crescere l’autostima. Se cresce l’autostima, invece, viene anche la voglia di assumere ruoli apicali che possano dare un contributo diverso. Questo non significa voler scalzare gli uomini, ma fare in modo che queste donne raggiungano la consapevolezza di un ruolo riconosciuto e che permetta loro di sentirsi piccole imprenditrici a tutto tordo. Da parte dei media, purtroppo, si guarda alle donne della pesca solo da un punto di vista di costume, di folklore, ma al primo posto, invece, ci dovrebbe essere il rispetto!”. 

Da quanto tempo si occupa di questo tema?

Io sono entrata nel mondo della pesca perché ho sposato un pescatore e mi sono resa conto dei sacrifici che venivano sostenuti dalle donne. Le colleghe francesi hanno sempre detto che, quando sposi un pescatore non sposi solo un uomo, ma sposi anche il suo mestiere e quindi anche i sacrifici che l’attività comporta. Ora sicuramente le cose sono migliorate, per gli uomini, mentre le donne sono sempre rimaste figure silenti. Quando ho preso coscienza di tutto questo, forte del fatto di essere stata Presidente della Commissione pari opportunità della Regione Marche, ho compreso che le donne devono capire che è importante muoversi ed unirsi facendo rete. Infatti, quando mi sono accorta della difficoltà di essere l’unica associazione di donne nella pesca presente in Italia, ho cercato appoggi in altre associazioni europee ed è nata la rete Aktea, di cui sono stata presidente per due mandati. Con la rete Aktea sono andata al Parlamento europeo per portare avanti le rivendicazioni delle donne della pesca. Le donne francesi, per esempio, hanno anche la possibilità di avere il sostegno psicologico in caso di tempeste, oltre alla copertura di malattie legate alla professione. Noi, tutto questo, ce lo sogniamo!”.

E Penelope che fine ha fatto?

Penelope esiste ancora anche se sono diminuite le adesioni. Alcune donne sono diventate anziane, altre non hanno più le barche perché la famiglia ha smesso l’attività. Ora ci sono le più giovani”.

Cosa spera?

“Vorrei veder realizzato il riconoscimento. Sarebbe la vittoria di un diritto molto importante. Quando parliamo di pari opportunità, significa arrivare al riconoscimento di quel ruolo e vedere figure femminili che ricoprono ruoli apicali. Adesso abbiamo una donna direttore di Federpesca, Francesca Biondo, ma è una. Le donne, per avere la forza di auspicare un cammino, hanno bisogno di sentirsi appoggiate”. 

Si parla di crisi perché non ci sono giovani disposti a fare lavori faticosi e retribuiti male. Questo aspetto coinvolge anche il mondo femminile?

“L’altro giorno, all’Osservatorio Nazionale della pesca, è stato presentato un corso di formazione con donne relativamente giovani. Nelle Marche, la mia regione, ci sono molte giovani che lavorano come coadiuvanti. Molti figli dei pescatori hanno ripreso il lavoro dei padri, anche se spesso, i padri stessi hanno cercato di indirizzare i figli verso altre professioni. Le donne sono sempre state sul campo di battaglia perché è l’attività della loro famiglia, non si è visto un calo di presenze. Le attività, nel bene e nel male, hanno continuato ad andare avanti”.

Di cosa si occupa ora? 

“Ora seguo i progetti di formazione, perché sono convinta che così si rafforzano le loro competenze. Diamo strumenti per migliorare e ottimizzare il lavoro e si spinge perché si costituisca una rete italiana di donne della pesca all’interno della quale scambiare informazione ed esperienze, ma anche la conoscenza di problematiche e cercare soluzioni. Potrebbero arrivare a fare progetti ed, al di là delle diversità, si potrebbero raggiungere obiettivi comuni senza privare dell’autonomia ogni singola impresa. Questa è crescita”.

Quanto è importante lo scambio di esperienze?

“Tantissimo. Dallo scambio di esperienze si determina l’evoluzione. Ci si deve rendere conto che, in molte regione, le donne della pesca, andando a vendere il loro prodotto nelle campagne, lo barattavano con i frutti dell’agricoltura. Uno scambio, oltre che di merci, anche di saperi e di esperienze, una sorte di baratto economico e, soprattutto, culturale. Insieme poi, le donne dell’agricoltura e della pesca, si recavano nei mercati cittadini ed anche qui si creava uno scambio di conoscenze. Queste donne hanno costruito l’ossatura economica e sociale di tante regioni, hanno messo in piedi una rete e, a queste donne, andrebbe riconosciuto il loro valore”. 

Presentazione associazione Penelope

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