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Pesca oceanica: l’epopea italiana – La marineria italiana ha vantato una solida tradizione nella pesca oltre gli stretti, comunemente chiamata pesca oceanica o atlantica. La prima marineria a esplorare le zone di pesca atlantiche fu quella di San Benedetto del Tronto. Agli inizi degli anni ’50, con motopescherecci d’altura (anche navi-fattoria da tremila tonnellate di stazza lorda), la flotta si spingeva a nord fino al Canada e a sud fino alle isole Falkland.

Il compartimento marittimo di San Benedetto del Tronto fece da apripista a molte altre flotte italiane, tra cui quella di Mazara del Vallo. Insieme,  rappresentavano la maggioranza delle imbarcazioni attive lungo le coste dell’Africa Occidentale, in paesi come Mauritania, Senegal, Guinea Bissau, Sierra Leone, Ghana, Nigeria, Angola e Namibia.

Gli anni ’80

Negli anni ’80, l’Italia contava circa 50 pescherecci oceanici che garantivano un considerevole approvvigionamento di risorse ittiche per il Paese, creando posti di lavoro ben retribuiti per centinaia di marinai, italiani e africani. In quegli anni non si parlava ancora di sostenibilità ambientale, in realtà non si avvertiva il fenomeno, per meglio dire non vi era educazione al rispetto dell’ambiente. La gestione delle risorse marine era affidata alla sensibilità dei comandanti dei pescherecci e delle compagnie armatrici, senza una regolamentazione specifica.

In poche settimane, una singola nave poteva arrivare a produrre tra le 300 e le 400 tonnellate di prodotto misto, tra cefalopodi demersali e crostacei. Tuttavia, non tutti rispettavano il mare allo stesso modo. La Comunità Europea, allora agli albori, non regolava ancora adeguatamente gli accordi bilaterali con i Paesi africani. Alcuni armatori, più spregiudicati, riuscivano a stipulare privatamente accordi vantaggiosi con gli Stati africani, consentendo la pesca anche in zone dove essa avrebbe dovuto essere interdetta, come entro le 12 miglia dalla costa.

L’Unione Europea e la globalizzazione

Se oggi le risorse ittiche scarseggiano in queste aree, l’ipersfruttamento degli anni passati ha avuto un peso significativo. Con l’introduzione di limitazioni severe da parte dell’Unione Europea e la globalizzazione, che ha aperto il mercato a prodotti ittici provenienti da tutto il mondo, insieme ai crescenti costi di produzione (specialmente quelli energetici), oltre il 90% delle aziende italiane del settore ha cessato l’attività.

Oggi rimane ben poco dell’epoca d’oro della pesca oceanica italiana. Pochissime imbarcazioni italiane continuano a lavorare in quelle aree. Alcuni operatori preferiscono utilizzare pescherecci battenti bandiere extracomunitarie, ma, nonostante siano consapevoli del danno arrecato all’ecosistema, riescono ancora a far arrivare prodotti ittici in Europa, aggirando divieti e riducendo i costi, spesso a scapito dell’onestà.

Pesca oceanica: l’epopea italiana

 

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