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Salute e sostenibilità. Ogni paese dovrebbe mangiare il proprio pescato – Aringhe, sgombri, salmoni del Regno Unito e alici e sardine italiane. Due nazioni diverse, un unico problema: il pescato locale, pur essendo ricco di nutrienti e sostenibile, non finisce sulle tavole dei consumatori nazionali. Uno studio del Rowett Institute dell’Università di Aberdeen, pubblicato su Nature Food, ha dimostrato che le specie ittiche pescate e allevate nelle acque britanniche potrebbero soddisfare gran parte del fabbisogno di Omega-3 e vitamina B12 della popolazione, ma vengono in gran parte esportate. Nel frattempo, i consumatori inglesi scelgono gamberi, merluzzo, tonno e salmone importati. Una situazione che trova riscontro anche in Italia, dove il pesce azzurro, simbolo del Mediterraneo, è spesso trascurato a favore di prodotti esteri, come il salmone norvegese o il merluzzo nordico.

In entrambi i casi, la scelta di non consumare pesce locale rappresenta un’occasione mancata sotto molti punti di vista. Sul piano nutrizionale, specie come aringhe, sgombri, alici e sardine sono fonti eccellenti di Omega-3, vitamina D e B12, nutrienti essenziali per la salute umana, in particolare nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Dal punto di vista ambientale, il consumo di pesce locale ridurrebbe l’impronta ecologica legata all’importazione, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi climatici. Non ultimo, sul piano economico, promuovere il pescato nazionale significherebbe rafforzare le filiere locali, sostenere le comunità costiere e preservare tradizioni culturali millenarie.

Il caso del Regno Unito, studiato attraverso un database unico che raccoglie oltre un decennio di dati su produzione, commercio e consumo di prodotti ittici, evidenzia come le preferenze dei consumatori e una mancanza di messaggi educativi mirati siano i principali ostacoli. “Non è una questione di carenza di pesce”, ha spiegato la professoressa Baukje de Roos, autrice della ricerca, “ma di una domanda insufficiente da parte dei consumatori”. Lo stesso vale per l’Italia: alici e sgombri, considerati un tempo il pesce del popolo, sono oggi sottovalutati, nonostante il loro eccellente rapporto qualità-prezzo e le infinite possibilità culinarie.

Secondo la dottoressa Anneli Löfstedt, componente del team di ricerca, un modello per il rilancio potrebbe essere il pesce in scatola, capace di coniugare praticità, convenienza e sostenibilità. L’Italia, patria delle conserve ittiche, ha già dimostrato il potenziale di questo approccio con le sue acciughe sott’olio e le sarde in scatola. Tuttavia, per rilanciare davvero il consumo di pesce locale, occorre andare oltre le tradizioni e investire in campagne di sensibilizzazione innovative.

Ogni Paese, dunque, dovrebbe mangiare il proprio pescato. Non si tratta solo di una questione di salute o di clima, ma di equità globale. Ridurre la dipendenza dalle importazioni in nazioni ricche come il Regno Unito e l’Italia significa lasciare più risorse ittiche disponibili per i paesi esportatori più poveri, spesso privati del loro pescato per soddisfare le richieste dei mercati esteri.

Riconnettersi con il mare e con i suoi prodotti è una scelta che guarda al futuro. Per il Regno Unito, potrebbe significare riportare le aringhe sulle tavole, simbolo di una cultura alimentare perduta. Per l’Italia, potrebbe voler dire riscoprire il valore delle specie ittiche locali, dalle alici del Tirreno alle sardine dell’Adriatico. La sfida resta quella di convincere i consumatori, offrendo informazioni chiare e promuovendo le qualità nutrizionali, ambientali e culturali del pesce locale.

L’obiettivo è chiaro: una dieta più sana, un sistema alimentare più sostenibile e una maggiore indipendenza alimentare per ogni nazione. E, nel caso dell’Italia, un’opportunità per valorizzare il legame profondo tra il Mediterraneo e la sua cucina, facendo del mare non solo una risorsa economica, ma un patrimonio da proteggere e condividere.

Salute e sostenibilità. Ogni paese dovrebbe mangiare il proprio pescato

 

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