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Tradizione, innovazione e le sfide del futuro per la pesca italiana – In Italia l’industria della pesca si trova ad affrontare una profonda crisi caratterizzata da una significativa riduzione della flotta peschereccia e anche quella dei posti di lavoro, insieme all’invecchiamento delle imbarcazioni e degli addetti. Le problematiche che il settore affronta sono molteplici: da un lato, la crisi climatica e l’inquinamento minacciano le risorse marine; dall’altro, le politiche europee sembrano ostacolare il settore senza coinvolgere i pescatori nel processo decisionale.

In questa intervista, Pesceinrete ha parlato con Maria Laurenza, segretaria generale UILA Pesca, che ci ha palesato una visione critica ma allo stesso tempo fiduciosa circa il futuro della pesca italiana. Tra tradizione, innovazione e nuove politiche, la pesca può ancora ritagliarsi un nuovo orizzonte, ma serve un impegno congiunto tra lavoratori, rappresentanti e istituzioni.

Quali sono i problemi e le sfide più significative che l’industria della pesca italiana deve affrontare?

La pesca italiana vive, ormai da molti anni, una profonda crisi strutturale che ha portato il settore a ritrovarsi, oggi, con una flotta di circa 12.000 imbarcazioni e 27.000 addetti e, cosa ancor più grave, con una età media superiore ai 50 anni, sia delle imbarcazioni che degli addetti! Rispetto al 2000 abbiamo perso il 20% della flotta e 18.000 posti di lavoro. E le prospettive non sono di certo rosee… Da un lato ci sono le minacce ambientali, dovute principalmente alla crisi climatica e all’inquinamento marino, che mettono a rischio la sopravvivenza delle risorse pescabili; dall’altro le politiche europee orientate unicamente a ridurre lo sforzo di pesca dei paesi europei nel Mediterraneo, Italia in testa. Al centro, schiacciati in questa morsa, ci sono i pescatori che sono e si sentono abbandonati, inascoltati e, come se non bastasse, da molti considerati e trattati come i principali, se non gli unici, responsabili dell’impoverimento delle risorse e come i peggiori nemici dell’ambiente marino. Inoltre, in particolare nel Mediterraneo, sono vittime della concorrenza sleale di prodotti provenienti da paesi che non devono rispettare le leggi europee. Più che di problemi e sfide da affrontare, è un settore che deve lottare per la sopravvivenza.

Non c’è da stare allegri… ma, la sua, non è una visione un po’ troppo pessimistica?

Purtroppo, no. Provi a parlare con qualche pescatore. I dati sulla consistenza della flotta italiana parlano chiaro. Sul fronte della minaccia ambientale, l’aumento di 5° della temperatura del Mediterraneo negli ultimi 40 anni e la conseguente proliferazione di specie aliene, l’inquinamento marino, la presenza in mare di plastiche e microplastiche, sono tutti fenomeni misurabili; le politiche europee sono una realtà che i pescatori sono costretti a subire senza aver potuto contribuire a scriverle.

Ma quindi la pesca italiana è condannata a sparire?

No, noi siamo convinti che la pesca possa e debba avere un futuro. Un nuovo orizzonte basato su tre parole essenziali: tradizione, innovazione e lavoro. È questo il titolo che abbiamo scelto per la nostra iniziativa di chiusura delle attività svolte nell’ambito del Programma Nazionale Triennale (PNT) della pesca, finanziato dal Masaf. È stato un evento molto partecipato, un’occasione di confronto aperto e molto serrato, al quale è intervenuto il sottosegretario La Pietra, con i tanti pescatori di una marineria con alle spalle una lunga tradizione ma che vuole comunque guardare al futuro con tenacia e ottimismo.

Da dove si può partire?

Occorre riconoscere il valore della pesca come attività tradizionale, essenziale per la vita delle comunità costiere, insieme al ruolo del pescatore come attore protagonista di queste comunità; è questo il primo passo da compiere. Occorre riconoscere e restituire ai pescatori e al loro lavoro la dignità che meritano; ascoltare le loro istanze, le loro conoscenze e la loro esperienza e, soprattutto, tenerne conto prima di decidere misure di conservazione e regolamenti che impattano direttamente sul loro lavoro, sulle risorse e sulle aree di pesca dove essi operano. E questo deve valere in Europa come in Italia.

Cosa non va nelle politiche europee?


La Politica Comune della Pesca (PCP) è sempre stata sorda e disattenta verso gli aspetti sociali ed economici della pesca, dei pescatori e delle comunità costiere, a tal punto che la parola “pescatore” non compare mai nel suo trattato istitutivo. Una politica, inoltre, che, fino al 2004, escludeva il Mediterraneo dalla sua attuazione, salvo poi svilupparne una che ha fallito completamente l’obiettivo di migliorare lo stato delle risorse, come “sognava” di fare la Commissione Ue nel 2006.
Le politiche europee sembrano ispirate a una “certa” cultura ambientalista che mira a colpevolizzare e criminalizzare l’insieme dei pescatori come dei predatori delle risorse.
La PCP ha progressivamente aumentato e irrigidito il sistema dei controlli teso a punire i pescatori, piuttosto che a promuovere buone pratiche e sistemi di premialità. L’introduzione delle telecamere a bordo dei pescherecci, ad esempio, che, pur di impedire i rigetti in mare si beffa del diritto alla privacy dei lavoratori, inquieta proprio per la volontà espressa di voler compilare delle “liste dei cattivi”.

A quando, al contrario, una lista dei bravi pescatori?

L’Ue Impone continue riduzioni delle possibilità di pesca, restrizione delle aree pescabili, imposizione e aumento di strumenti e sistemi di controllo sulle attività e sul pescato. Misure decise senza consultare il settore e imposte attraverso dei Regolamenti adottati senza un preventivo studio sul loro impatto socio-economico. 
C’è poi un altro aspetto da sottolineare che riguarda il lavoro: la normativa per la lotta alla pesca illegale dell’Unione europea non si applica al pesce importato e, soprattutto, non considera illegale il pesce pescato da lavoratori spesso costretti o in schiavitù e importato da quei paesi dove ciò avviene.
Ci auguriamo di trovare nel nuovo Commissario Kostas un interlocutore più ragionevole dei precedenti, con cui poter discutere dei problemi della pesca senza pregiudizi ideologici.

Parlava di recupero della pesca come tradizione?

Da due anni, sempre nell’ambito delle attività del PNT, la Uila Pesca ha avviato il progetto itinerante “Blue Friday”, il venerdì del pescatore che, riprendendo un’antica tradizione dei pescatori dell’Adriatico di dedicare il venerdì alla famiglia e alla condivisione della vita di comunità, ci ha portato in diverse marinerie italiane (Catania, Manfredonia, Genova, Piombino, Sant’Anna Arresi, Bagnara Calabra, Taranto, San Benedetto del Tronto) a festeggiare questa giornata insieme a centinaia di pescatori con le loro famiglie; ad ascoltare le loro voci, la storia del loro lavoro, faticoso, portato avanti con forza di volontà e con la passione per il mare. E ogni marineria ha le sue produzioni ittiche tipiche, le proprie usanze e ricette alimentari che hanno contribuito allo sviluppo culturale ed economico delle comunità locali. Produzioni e specialità culinarie che concorrono ad arricchire la reputazione del Made in Italy.

Quali sono i punti di forza del settore in Italia?


Innanzitutto la straordinaria varietà e qualità dei prodotti pescabili nei nostri mari, così come la vitalità delle nostre marinerie e il grande valore della cultura, anche culinaria, che esse rappresentano. Un altro punto di forza è, sicuramente, il sistema di relazioni sindacali costruito negli anni dalle parti sociali e che ha consentito di rinnovare sempre puntualmente i contratti di lavoro e di sviluppare un sistema di bilateralità che risponde alle esigenze di lavoratori e imprese.
È un settore nel quale, più che in altri, esiste una comunione di interessi e di problemi tra lavoratori dipendenti e armatori che, come si suol dire “stanno sulla stessa barca”, veramente.
In passato, nel caso della vertenza con l’Ue sulla vongola dell’Adriatico, l’Italia della pesca è riuscita ad unirsi, mondo della produzione, mondo scientifico e istituzioni, riuscendo a dimostrare e convincere la Commissione europea delle nostre ragioni. 
Inoltre, c’è da evidenziare come ogni volta che i pescatori, aggregati in consorzi di gestione, OP o cooperative, hanno proposto, collettivamente, delle misure di gestione ad hoc per i propri territori, si sono sempre verificati risultati positivi per gli stock ittici.

Tradizione e innovazione non sono in contrasto tra loro?


Assolutamente no ma certamente tutto il mondo della pesca e tutti insieme dobbiamo fare un salto culturale per innovare il settore. Coniugare tradizione e innovazione è la sfida fondamentale per garantire la sostenibilità sociale ed economica del settore. Per quanto riguarda tecniche e tecnologie, ci sono tante innovazioni possibili e tante sono allo studio. Al di là della propensione del ceto peschereccio alle innovazioni, resta il fatto che queste hanno un costo non sempre sostenibile da tutti.
Ma innovazione significa anche immaginare che il lavoro nella pesca del futuro non può fermarsi all’attività di cattura a bordo, deve andare oltre e che, per farlo deve puntare sui giovani, così come è avvenuto nel mondo agricolo dove figli e nipoti di imprenditori, dopo aver svolto studi superiori, sono tornati nell’impresa familiare con idee nuove, sia di natura tecnica legate alla produzione, sia, soprattutto, legate a strategie manageriali e di marketing. Innovazione significa infatti intraprendere nuovi canali commerciali, anche attraverso il web, per promuovere e accrescere il valore delle produzioni e sottrarsi così al gioco del mercato del pesce che li esclude e mortifica il loro lavoro. Innovazione significa sperimentare nuovi sistemi per la vendita diretta e la prima trasformazione del pescato; significa pensare a sviluppare nuove attività, come il pescaturismo e l’ittiturismo.
Siamo anche convinti che, nello sviluppo del ruolo multifunzionale del settore, le donne possano giocare un ruolo importante che già oggi svolgono, prevalentemente come coadiuvanti seppur senza alcun riconoscimento formale, ma che dovrebbe ampliarsi ad altre attività.

Parliamo di sicurezza sul lavoro. A che punto siamo?

Attendiamo da 16 anni l’emanazione dei decreti attuativi per il settore della pesca del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (D.Lgs 81/2008). Nel frattempo i pescatori non possono utilizzare innovativi dispositivi di protezione individuale, come i giubbotti autogonfiabili e calzature leggere, perché non omologati, e sono costretti ad utilizzare quelli previsti dalla normativa vigente che intralciano e rendono più pericolosa l’attività di pesca e sono, quindi, poco utilizzati.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha dichiarato che il mestiere del pescatore è il più pericoloso al mondo ma in Italia la pesca non è riconosciuta come un lavoro usurante ai fini pensionistici.

Nel 2015, con il progetto “La sicurezza nelle nostre reti” la Uila Pesca ha avviato uno studio, mai svolto in precedenza a livello mondiale, che ha misurato scientificamente come il lavoro del pescatore sia estremamente gravoso e, quindi, usurante. Il suo riconoscimento sarebbe un atto di puro buonsenso e di buona volontà politica da parte del legislatore verso un ceto peschereccio, numericamente esiguo e tale da non costituire un problema di copertura economica.
Il tema della sicurezza si intreccia anche con quello dell’innovazione e risulta incomprensibile come l’Europa continui a vietare la costruzione, a parità di caratteristiche tecniche, di nuove imbarcazioni più sicure e performanti.

Come giudica l’operato del governo e cosa chiederete in futuro?


L’attuale governo ha mostrato attenzione e sensibilità su alcuni aspetti del lavoro nel settore. Il nuovo meccanismo di gestione delle giornate di pesca, improntato alla flessibilità consente alle imprese di meglio programmare la propria attività e ai pescatori di lavorare più serenamente. Anche le azioni in risposta all’emergenza “Granchio Blu” e la recente equiparazione dell’imprenditore ittico a quello agricolo, costituiscono una importante base per restituire fiducia ai lavoratori. Come pure l’opposizione, ferma, pur se solitaria, alle posizioni della Commissione Europea sul tema dell’Action Plan e del Regolamento Controlli ci hanno restituito una sensazione di minore solitudine e impotenza.
Tra le richieste future, oltre a quelle già indicate in materia di sicurezza sul lavoro, c’è innanzitutto la questione della cassa integrazione per il settore. Tre anni fa, quando i pescatori erano considerati degli eroi che sfidavano la pandemia per continuare a produrre cibo per le nostre tavole, abbiamo ottenuto, in via di principio, l’estensione della Cassa integrazione salariale per gli operai agricoli (CISOA) anche al settore della pesca; estensione che, però, non è mai divenuta effettiva, in mancanza dei decreti attuativi.
Poi ci aspettiamo che venga chiarita e data piena attuazione alla legge “Salvamare”, prevedendo un sistema di reale premialità dei pescatori coinvolti nell’opera di raccolta dei rifiuti in mare, e venga regolamentata meglio la cosiddetta pesca sportiva e ricreativa che rappresenta oggi, con oltre un milione di praticanti, una potenziale ulteriore forma di concorrenza sleale che danneggia la pesca professionale.

Quindi ritiene possibile un nuovo orizzonte per la pesca?

Sicuramente sì, partendo dalle conoscenze della tradizione ma guardando avanti verso una modernità ormai necessaria per far sì che questo orizzonte si avvicini. Noi siamo ottimisti e convinti che l’orizzonte dei pescatori sia raggiungibile, unendo le forze, tutti insieme, mondo della rappresentanza e istituzioni, guidati dalla forza di volontà e dal buonsenso. Solo così sarà possibile trovare soluzioni concrete che possano traguardare il settore verso il futuro.

Tradizione, innovazione e le sfide del futuro per la pesca italiana

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